di Stefano Pozzoli
Il regolamento sugli emolumenti per amministratori, sindaci e direttori generali per gli enti pubblici anticipato sul Sole 24 Ore del 5 febbraio propone una meccanica che si ispira, visibilmente, allo schema a suo tempo comparso ma mai arrivato al traguardo per le società pubbliche. Ed è in linea con il Dm 166/2013 del Mef, anch’esso orientato a un criterio di fasce dimensionali, relativo ai compensi per gli amministratori con deleghe delle controllate dal Tesoro. In merito, il Consiglio di Stato, nel parere 101/2022 ha contestato la mancata applicazione agli organismi degli enti territoriali osservando che «la norma primaria non ne prevede la generale esclusione, che è riferita solo agli enti del Servizio sanitario nazionale. Le regioni, le province autonome di Trento di Bolzano, gli enti locali e i loro organismi ed enti strumentali (fatta eccezione per quelli in forma societaria) dovrebbero quindi rientrare nel campo di applicazione del regolamento». Da qui la decisione, molto forte, di sospendere il giudizio in attesa delle necessarie modifiche.Il punto di sostanza è che, almeno nei desiderata dei redattori del nuovo schema di decreto, ci si ostina a voler disporre una regolamentazione adeguata esclusivamente per gli organismi partecipati dallo Stato, ignorando invece i problemi, enormi, che sta creando la demagogica cristallizzazione dei compensi nel mondo delle partecipate delle Pa territoriali. È inutile ricordare che la norma per cui «i compensi degli amministratori di tali società, ivi compresa la remunegrazione di quelli investiti di particolari cariche, non può superare l’80% del costo complessivamente sostenuto nell’anno 2013» era risultata subito una forzatura di una politica che invece di dare risposte concrete trova più semplice assecondare malumori popolari su questioni vissute come di dettaglio.
A maggior ragione, però, la conferma di questa disposizione nel Tusp aveva un senso (a volerlo trovare) solo nella prospettiva, transitoria, di regolamentare in maniera compiuta il tema in un arco temporale molto ristretto.Dal procrastinarsi della soluzione è conseguita una miriade di interpretazioni, in certi casi coraggiose, altre volte eccentriche, da una parte per giustificare il divieto di aumentare i compensi, dall’altra per trovare il modo per derogarvi, riconoscendovi validità «salvo che in questo caso».Il Mef oggi ha comunque fatto la scelta di gettare un sasso nello stagno. Viene da chiedersi se siamo al solito egoismo dello Stato che legifera per sé ma esclude Regioni e Comuni, o se non sia il segnale che qualcosa sta cambiando. Per ora si tratta di prendere atto che, mentre per le società dei Comuni si attende invano dal 2015 una congrua definizione dei compensi, l’adeguamento previsto dalla legge 162/ 2019 per gli enti diversi dalle società, e solo di emanazione statale, viene “rapidamente” portato alla firma.Difficile non cogliere, oggi, la studiata ironia dell’articolo 26, comma 8 del Tusp, per cui «se alla data di entrata in vigore del presente decreto non sia stato adottato il decreto previsto dall’articolo 1, comma 672, della legge 208/2015, il decreto di cui all’articolo 11, comma 6 è adottato entro trenta giorni dalla suddetta data». I 30 giorni sono passati da un pezzo. E se non riesce un governo di alto spessore tecnico a intervenire su una questione come questa, apparentemente marginale ma in realtà importante sul piano della dignità stessa di un pezzo cruciale del sistema competitivo del Paese, chi altri potrà farlo?
In collaborazione con Mimesi s.r.l.
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