Il fatto
A seguito di selezione comparativa ai fini dell’assegnazione di un incarico dirigenziale nel settore ambientale, veniva scelta una candidata che, oltre ad avere un master nelle materie ambientali, aveva dichiarato di aver svolto un periodo quinquennale, presso un avvocato, nel campo ambientale. A seguito di esposto, l’ente avviava il procedimento di decadenza della dirigente chiedendo di dimostrare il periodo quinquennale di esperienza maturata in materia ambientale. A seguito della mancata risposta in merito, l’ente ha chiesto all’avvocato, cui la candidata aveva dichiarato di aver svolto un periodo quinquennale in materia ambientale, l’esperienza maturata presso il suo studio. L’avvocato dopo aver negato di occuparsi di materie ambientale, ha dichiarato che la dirigente a contratto avesse svolto esclusivamente pratica ai fini dell’abilitazione alla professione e non attività riguardanti conteziosi in materia ambientale. L’ente, a fronte delle dichiarazioni ricevute, concludeva per decadenza il rapporto di lavoro con la dirigente a contratto per dichiarazione non veritiere in merito ai titoli autocertificati. Avverso il provvedimento di decadenza, il dirigente a contratto proponeva ricorso davanti al giudice del lavoro che, tuttavia, ne rigettava le motivazioni non avendo dimostrato, neppure davanti al giudice civile il quinquennio di lavoro autocertificato. Trattandosi di condotta intenzionale, la Procura della Corte dei conti l’ha, quindi, citata nel giudizio contabile per aver svolto attività in assenza del titolo richiesto e dolosamente autocertificato. La quantificazione del pregiudizio erariale è stato quantificato dalla Procura pari alle retribuzioni percepite medio tempore presso l’ente in cui aveva svolto le attività di dirigente a contratto.
La condanna erariale
Premette il Collegio contabile come, nel caso di specie, il danno erariale discenderebbe dalla mancata dimostrazione del requisito specifico previsto nell’avviso pubblico relativo alla concreta attività lavorativa svolta per almeno un quinquennio , come autocertificato dalla candidata ai sensi del D.P.R. n. 445/2000. Secondo tali disposizioni, infatti, in caso di falsità in atti e dichiarazioni mendaci, è disposta la decadenza dai benefici eventualmente conseguiti, fatte salve le responsabilità penali di cui agli artt. 75 e 76 del D.P.R. n. 445/2000. Non vi sono dubbi sulle dichiarazioni non veritiere rese dalla nominata dirigente a contratto in ordine alla sussistenza del requisito specifico dello svolgimento di concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio , come richiesto dall’art.19, comma 6, del d.lgs. 165/01 e dall’avviso pubblico. Il collegio, accertata l’assenza di uno dei requisiti di legge per accedere all’incarico di dirigente a contratto, circostanza questa non contestata nemmeno dalla difesa atteso che la dirigente no è stata in grado di provare l’attività svolta in materia ambientale per un quinquennio presso lo studio legale indicato, ritiene che la veridicità delle dichiarazioni rese in forma di autocertificazione dalla stessa dirigente a contratto che, in ragione del livello culturale posseduto, non possono ascriversi né a mere sviste o errori incolpevoli, bensì a dolosa e consapevole volontà di offrire alla Commissione esaminatrice dei curricula dei candidati la rappresentazione di un bagaglio professionale idoneo a ricoprire l’incarico, come peraltro riconosciuto nella stessa motivazione del provvedimento di conferimento del direttore generale.
Il Collegio, pertanto, ha osservato come nella fattispecie, come quella di cui è causa, in cui un soggetto abbia fraudolentemente ottenuto il conferimento di un incarico lavorativo alle dipendenze di una P.A. mediante falsa dichiarazione sul possesso di uno dei requisiti prescritti dalle norme imperative di settore, il rapporto sinallagmatico tra la prestazione lavorativa specializzata prevista nel contratto e la retribuzione lorda erogata dall’ente è irrimediabilmente inficiato dal fatto che il lavoratore in questione sia privo della professionalità richiesta e che le retribuzioni da questi percepite siano giuridicamente prive di “giusta causa” con la conseguenza che le retribuzioni ricevute sono da considerarsi indebite e determina l’insorgenza di un danno erariale e della consequenziale responsabilità amministrativa a carico dell’autore dell’illecito. Ciò comporta la non applicabilità alla fattispecie dell’art. 2126 c.c. in quanto, come precisato dalla giurisprudenza costituzionale, la tutela della retribuzione prevista dal comma art. 36 della Costituzione presuppone un rapporto di lavoro lecitamente instaurato (Corte cost., sent. n. 296/1990).
Pertanto, il danno erariale coincide con tutte le retribuzione percepite dalla convenuta, senza alcuna possibilità di poter esercitare per la sua condotta dolosa l’esercizio del potere di riduzione intestato alla Corte dei conti.
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