Il fatto
Un assessore, assolto in un giudizio penale, in ragione del rifiuto del proprio ente al rimborso delle spese legali sostenute, ha proposto ricorso al Tribunale amministrativo di primo grado. I giudici amministrativi aditi hanno giudicato legittimo il diniego del rimborso richiesto in quanto l’assoluzione era avvenuta per reati di concorso nell’associazione mafiosa dedita alla commissione di delitti volti all’acquisizione diretta e indiretta della gestione di attività economiche, di concessioni e autorizzazioni, di appalti e servizi pubblici. Tali imputazioni, a dire del TAR adito, essendo legate da un rapporto non di causalità ma di occasionalità con l’incarico e la delega di Assessore, generavano un conflitto di interessi ex ante con il proprio ente a nulla rilevando l’assoluzione ottenuta a seguito del giudizio penale. Avverso la sentenza l’ex assessore ha proposto ricorso in appello, ritenendo che il rimborso era obbligatorio in quanto:
1) i fatti che hanno dato luogo al giudizio penale possano qualificarsi come strettamente connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali, e che quindi il procedimento ai danni dell’interessato sia stato promosso in conseguenza di fatti e atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali;
2) essendo stata esclusa la sua responsabilità rispetto ai fatti contestati, sarebbe venuto meno il conflitto di interessi con l’Ente.
La conferma del rigetto
Per i giudici amministrativi di appello, il ricorso è infondato e deve essere confermato il rigetto del rimborso delle spese reclamate, in quanto fatti contestati non sono direttamente connessi all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti d’ufficio. Nel caso di specie, infatti, non sussiste il diritto al rimborso delle spese legali sostenute per la difesa in giudizio, se la condotta è consistita in un atto che esulava dai doveri di ufficio e dall’adempimento dei compiti dell’ufficio (Cass. civ. Sez. lavoro Ord., 05/03/2019, n. 6349).
Ora, se è vero che le accuse, dalle quali il ricorrente ha dovuto difendersi, inerivano alla carica rivestita, necessario e ineliminabile presupposto logico e operativo dell’accusa, e se anche dovesse convenirsi con la tesi che i fatti contestati fossero esplicitamente collegati al compimento del servizio e all’esecuzione dei compiti d’ufficio, non può ritenersi che gli stessi fossero “in diretta connessione con i fini dell’Amministrazione e ad essa dunque imputabile”. In altri termini, la giurisprudenza amministrativa e civile, ha da tempo confermato che la fattispecie del rimborso sia impossibile laddove l’ipotesi d’ accusa (seppur rivelatasi infondata) concernesse condotte svolte non “per l’ente” ma, in tesi, “contro “ l’ente, e quindi in conflitto di interessi. Il giudice di legittimità ha, di fatto, chiarito che, ai fini del rimborso delle spese legali la condotta addebitata non sia frutto di iniziative autonome, contrarie ai doveri funzionali o in contrasto con la volontà dell’ente, secondo una valutazione ex ante che prescinde dall’esito del giudizio penale (tra le tante: Cassazione civile sez. I, 31/01/2019, n.3026). Nel caso di specie, il conflitto di interessi con l’ente, da giudicare ex ante, era evidente in quanto, secondo gli atti penali, risulta che l’imputazione concernesse condotte che si innestavano quale concorso esterno in una associazione mafiosa, e quindi, per definizione, in palmare conflitto di interessi con l’Ente comunale.
Il ricorso, pertanto, è stato definitivamente respinto anche dai giudici amministrativi di appello.
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