Il fatto
Una responsabile del servizio finanziario di un ente locale è stata condannata al reato di peculato, oltre al risarcimento del danno alla parte civile, sia dal Tribunale di primo grado, sia dai giudici di appello. A dire dei giudici, infatti, la responsabile dei servizi finanziari avrebbe emesso mandati di pagamento a suo favore privi di una legittima giustificazione contabile, ovvero avrebbe inserito nei propri cedolini dello stipendio indennità non dovute.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso in Cassazione l’imputata evidenziando l’errore in cui era incorsa la Corte di appello, per non aver tenuto conto che le funzioni da lei esercitate erano state attribuite dalla Giunta comunale ad altro dipendente, considerando irrilevante il mancato passaggio delle consegne. Pertanto, l’appropriazione non sarebbe avvenuta “per conto dell’amministrazione comunale” ma per proprio esclusivo interesse, in mancanza di alcuna legittimazione ex lege. Non potendosi, quindi, considerare le somme nella disponibilità della imputata, il possesso delle stesse è stato ottenuto in modo fraudolento dovendo il reato essere derubricato in quello, al limite, di truffa aggravata. Infine, non può essere sottaciuto come l’imputata avesse ingannato con artifizi e raggiri il revisore e il tesoriere del Comune ottenendo il pagamento a suo favore delle somme.
La conferma del reato
A dire dei giudici di Piazza Cavour, il giudice di legittimità ha in diverse occasioni precisato che si è in presenza del peculato quando il pubblico funzionario si sia trovato, pur in base a consuetudini irrituali diffuse nell’ufficio nel quale lavora, nelle condizioni di riscuotere e detenere denaro o valori di pertinenza dell’amministrazione (tra le tante, Cass., Sez. 6, sentenza n. 19424/2022). Infatti, in questo caso i beni sarebbero entrati nella sua disponibilità proprio in ragione del servizio prestato non in maniera occasionale o casuale, e neppure in forma
propriamente illegale, ma nell’espletamento di un rapporto giuridico funzionale gestito con modalità tali da consentirgli stabilmente di inserirsi di fatto nel maneggio dei beni medesimi. Nel caso in esame, la Corte di appello ha accertato che la ricorrente, nonostante il disposto avvicendamento delle funzioni e senza che vi fosse stato un formale passaggio di consegne, avesse continuato per lungo tempo a mantenere pacificamente la piena gestione dell’ufficio e quindi la disponibilità giuridica del danaro pubblico, tanto da non dover ricorrere ad alcun artificio o raggiro per porre in esecuzione i mandati di pagamento recanti la sua firma. Se ciò è vero, allora non è possibile individuare il reato di truffa, non avendo in ogni caso l’imputata ottenuto la disponibilità materiale o giuridica del denaro per effetto degli artifici o raggiri posti in essere ai danni dei soggetti cui competeva l’adozione degli atti esecutivi (tesoriere) o di controllo (revisore contabile).
Il ricorso, in conclusione, deve essere dichiarato inammissibile confermando il reato di peculato e il pagamento delle spese di giudizio.
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