La trattazione della vicenda prende piede dal principio in forza del quale la domanda di ripetizione dell’indebito proposta da un’Amministrazione nei confronti di un proprio dipendente, in relazione alle somme corrisposte sine titulo, è atto dovuto, per quanto debba essere mitigato sulla base della peculiarità della singola fattispecie. L’Amministrazione non può decidere discrezionalmente se intervenire, configurando anzi il mancato recupero delle somme un danno erariale. Tale disciplina tuttavia, osserva il Collegio, non è suscettibile di applicazione in via automatica: è infatti necessario considerare anche le connotazioni, giuridiche e fattuali, delle fattispecie dedotte in giudizio, riguardanti la natura degli importi richiesti in restituzione, le cause dell’errore nell’erogazione, il lasso di tempo trascorso tra la stessa e l’emanazione del provvedimento di recupero e altre ancora. Assume grande importanza in materia la sentenza n. 4893/2013 della CEDU, in cui si cristallizzano le circostanze tramite le quali la buona fede del percipiente assume rilievo. In tali casi, conclude il Consiglio, essendosi ingenerato il legittimo affidamento nel dipendente sulla spettanza delle somme, la loro ripetizione comporterebbe la suddetta violazione del cosiddetto proportionality test richiesto dall’articolo 1 del Protocollo n. 1 addizionale alla Convenzione, il quale ammette le ingerenze statuali nel godimento di beni privati solo se le stesse siano previste dalla legge per uno scopo legittimo; circostanza che non si verificherebbe, ad esempio, in caso di voce stipendiale a carattere sporadico.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento