La domanda del Sindaco
Un ente locale ha chiesto ai magistrati contabili se il Consiglio comunale possa procedere ad un riconoscimento di un debito fuori bilancio anche dove il contratto con il privato contraente risulti viziato da nullità testuale o virtuale (come nel caso di violazione della forma scritta in modalità digitale prevista ad substantiam per i contratti d’appalto dall’art. 32 comma 12 del d.lgs. 50/2016), risultando civilisticamente nullo.
Le indicazioni del Collegio contabile
La questione riguarda, a dire dei magistrati contabili, l’ampiezza della fattispecie disciplinata dall’art. 194, comma 1, lett. e), del TUEL, ove l’acquisizione del bene e del servizio discenda da negozi giuridici posti in essere non solo in difformità dalle disposizioni sulla gestione finanziaria concernenti la regolare effettuazione delle spese (art. 191 del TUEL), ma anche in contrasto con le norme all’origine di un vizio di nullità. Fermo restando che l’ente locale non potrebbe rimediare alla mancanza di un’obbligazione validamente sorta attraverso il procedimento di riconoscimento del debito, con la conseguenza che il Consiglio comunale potrebbe riconoscere il debito esclusivamente quale riconoscimento dell’utilità dell’opera o della prestazione ai fini dell’azione di indebito arricchimento. Il tema dell’insanabilità del contratto nullo, attraverso il ricorso al procedimento previsto per il riconoscimento del debito fuori bilancio, è stato specialmente esplorato in ordine alla fattispecie del contratto privo della forma scritta ab sustantiam, atteso il frequente ricorrere della casistica nell’ambito dei contenziosi tra privati e pubblica amministrazione. Secondo la giurisprudenza di legittimità, rimane fermo che «il riconoscimento da parte della P.A. dell’utilità della prestazione o dell’opera può rilevare non già in funzione di recupero sul piano del diritto di una fattispecie negoziale inesistente, invalida o comunque imperfetta – trattandosi di un elemento estraneo all’istituto – bensì in funzione probatoria e, precisamente, ai soli fini del riscontro dell’imputabilità dell’arricchimento all’ente pubblico» (Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 26 maggio 2015, n. 10798). Pertanto, a prescindere dalla validità dell’obbligazione sottostante il riconoscimento, occorre tenere ben presente che l’ente locale è, comunque, esposto all’azione di arricchimento senza causa nell’ipotesi in cui, per effetto della concreta fattispecie, si sia realizzato uno spostamento patrimoniale che, senza una giustificazione obiettiva, abbia recato un vantaggio economico ad un soggetto, ancorché pubblico, a detrimento di un altro. In virtù dell’effetto di scissione del rapporto di immedesimazione organica alla base del sorgere ex lege di un rapporto obbligatorio diretto tra il dipendente/amministratore e il privato, che espone il primo, con il proprio patrimonio all’azione contrattuale del terzo, l’amministrazione comunale, come indicato dalla giurisprudenza costituzionale in materia (Corte costituzionale, sentenza n. 446 del 1995), potrebbe in ogni caso subire:
a) da un lato, l’azione del dipendente/amministratore, che abbia corrisposto al privato il prezzo della prestazione del servizio o della fornitura del bene oppure della realizzazione dell’opera;
b) dall’altro, l’iniziativa del contraente privato, che è legittimato, utendo iuribus del dipendente/amministratore suo debitore, ad agire
contro la pubblica amministrazione – anche contestualmente alla proposizione della domanda per il pagamento del corrispettivo – in via surrogatoria ai sensi dell’art. 2900 c.c., «per assicurare che siano soddisfatte o conservate le sue ragioni» quando il patrimonio del dipendente/amministratore non offra adeguata garanzia.
D’altra parte, rileva il Collegio contabile, l’esposizione dell’amministrazione locale alle richiamate azione processuali sussiste anche per il caso di mancata adozione della deliberazione di riconoscimento del debito fuori bilancio, in considerazione dell’indirizzo giurisprudenziale che, all’esito della definitiva composizione dei contrasti in materia, nell’individuare la connotazione oggettivistica dell’azione in questione, ha affermato il principio di diritto per il quale «la regola di carattere generale secondo cui non sono ammessi arricchimenti ingiustificati né spostamenti patrimoniali ingiustificabili trova applicazione paritaria nei confronti del soggetto privato come dell’ente pubblico; e poiché il riconoscimento dell’utilità non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, il privato attore ex art. 2041 c.c., nei confronti della P.A. deve provare – e il giudice accertare – il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’amministrazione possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, potendo essa, piuttosto, eccepire e dimostrare che l’arricchimento non fu voluto o non fu consapevole» (Cass., SS.UU., cit., n. 10798 del 2015).
Conclusione
Pertanto, in presenza dei presupposti individuati dall’art. 194, comma 1, lett. e) del TUEL, la deliberazione consiliare di riconoscimento di una spesa scaturita da un negozio invalido non è stata considerata idonea a cagionare ex se un esborso illegittimo, salvo che esso ecceda l’utilità riconoscibile e ascrivibile alle sue funzioni essenziali, circostanza che, invero, potrebbe riscontrarsi ove l’ente
riconosca l’utilità di prestazioni non collegate all’esercizio di pubbliche funzioni e di servizi di competenza dell’ente, esorbitando dai limiti del proprio potere discrezionale; riconosca il pagamento in relazione a somme cui non corrisponde un “arricchimento” dell’ente (da contrapporre all’impoverimento di un altro soggetto), da intendersi in senso stretto, come precisato dalle Sez. Unite della Cass. (11/09/2008, n. 23385) in relazione all’art. 2041 cod. civ., ovvero a somme rispetto alle quali non vi sia diritto all’indennizzo del privato, come ad es. l’eventuale lucro cessante da questi ottenibile qualora vi fosse stato il rispetto della legge, le somme per interessi e rivalutazione, l’utile di impresa, le spese giudiziali, i maggiori oneri imputabili al ritardo nei pagamenti, ecc., in considerazione del fatto che in questo caso nessuna utilità ed arricchimento può conseguire all’ente, rappresentando i predetti esborsi un ingiustificato danno patrimoniale del quale devono rispondere coloro che con il loro comportamento lo hanno determinato. Occorre escludere, in altri termini, dal calcolo dell’indennità dovuta all’esecutore di una prestazione resa in virtù di un contratto invalido, quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace, perché diversamente si riconnetterebbe all’istituto de quo una natura risarcitoria, estranea alla sua funzione» (Sezione giurisdizionale per la Regione Puglia, cit., n. 668 del 2021).
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