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Attuazione della riforma fiscale: nuova disciplina dellÂ’interpello (Parte 4)

Con comunicato del 02/10/2015 la rivista telematica dell’Agenzia delle Entrate rende noto che:

Nella ricostruzione della storia che ha condotto alla approvazione del nuovo schema di decreto delegato in materia di riordino della disciplina degli interpelli, un capitolo importante va dedicato al tema degli interpelli “obbligatori” , intendendosi per tali tutti quelli in cui, ferma restando la natura e gli effetti della risposta, la legge contempla non una mera facoltà, ma un vero e proprio obbligo di presentazione della relativa istanza ai fini dell’ottenimento di un parere favorevole all’accesso a un regime derogatorio (nella maggior parte delle ipotesi anche agevolativo) rispetto a quello legale, normalmente applicabile.

L’obbligo di presentazione dell’istanza, previsto dalla normativa di riferimento, rispecchia, in generale, l’esigenza di consentire all’Amministrazione finanziaria, proprio attraverso la presentazione delle istanze, un monitoraggio preventivo in merito a determinate situazioni considerate a priori dal legislatore “pericolose”.

Non è un caso, infatti, che il perimetro applicativo di questi interpelli sia coinciso storicamente con una serie di situazioni presidiate da regole particolari, in quanto meritevoli di particolare attenzione, dalla disciplina dei limiti al riporto delle perdite, anche nelle ipotesi di operazioni di aggregazione aziendale, al possesso di partecipazioni in società localizzate in Paesi black list, dall’applicazione della disciplina delle società non operative (e affini) all’operatività di specifiche clausole antielusive in contesti particolari (ad esempio, ai fini del beneficio Ace).

 È risultato fin da subito evidente che il modello dell’interpello obbligatorio, lungi dal costituire solo espressione – al pari degli interpelli facoltativi – della possibilità di dialogo preventivo con l’amministrazione, era destinato a essere percepito dai contribuenti uno strumento di possibile ingerenza dell’amministrazione “preventivo” e del tutto scollegato dall’esercizio dei poteri di accertamento “classico”; ciò ha contribuito ad accentuare un’esigenza di tutela giurisdizionale immediata che, almeno fino a quel momento, non si era mai posta per le risposte alle istanze di interpello ordinario.

 Oltre al fenomeno di moltiplicazione delle tipologie di interpello che, pur nascendo dalla semplice volontà di meglio adattare uno strumento generale alla specificità delle singole ipotesi, ha finito per creare disorientamento, anche lo sviluppo della categoria degli interpelli obbligatori e soprattutto le enormi problematiche applicative connesse hanno concorso a rimettere al centro del dibattito la necessità di una rivisitazione dell’istituto che tenesse conto (anche) dell’esistenza di queste forme che, pur senza tradire le peculiarità, devono necessariamente essere ricondotte nel paradigma generale di riferimento.

Da qui, quindi, è nata l’indicazione della legge delega che, per la parte dedicata specificamente al tema in esame, si sostanzia nella “tendenziale” eliminazione delle forme di interpello obbligatorio, guidata dalla logica di un equo bilanciamento di interessi, quale quello dell’amministrazione a conservare – attraverso queste tipologie di interpello – un qualche strumento di monitoraggio sulle situazioni sostanziali sottese e quello dei contribuenti al non aggravamento dei propri obblighi nell’adempimento del dovere tributario.

 

Prima di entrare nei dettagli del “come” ha trovato attuazione il principio di delega nello schema di decreto delegato, sembra opportuno soffermarsi su un inquadramento generale dell’interpello obbligatorio, cercando di trovare risposta ad alcune delle domande di fondo che riguardano la categoria in esame.

 Gli interpelli obbligatori: cosa sono

Un dato di partenza utile, comune a tutte le diverse teorie che si sono interrogate a lungo su questa affascinante tipologia di interpelli, è quello secondo cui, in determinate situazioni (quelle corrispondenti alle situazioni sostanziali oggetto di interpello obbligatorio), vige un determinato regime legale, normalmente restrittivo per i contribuenti.

Questo regime, in quanto legale, opera ex se, per effetto di una scelta aprioristica del legislatore in ordine al trattamento da riservare a una certa posta reddituale che trova origine non tanto nella valutazione sulla rilevanza o meno del componente stesso secondo il canone della capacità contributiva (articolo 53 della Costituzione) quanto nel timore legislativo di condotte in senso lato elusive. In altre parole, per attenerci al più classico esempio di interpelli obbligatori, l’indeducibilità di determinati componenti negativi (perdite) a seguito di operazioni straordinarie al ricorrere di determinate condizioni non sottende un giudizio sulla inidoneità della perdita a concorrere alla formazione del reddito del contribuente, quando la preoccupazione che il componente negativo stesso sia frutto di una “fittizia” creazione, artatamente messa in piedi con l’evidente finalità di consentire l’abbattimento del reddito.

 Proprio perché l’irrilevanza reddituale di alcuni componenti non deriva da una valutazione guidata “solo” dai canoni della potenzialità economica di cui all’articolo 53 della Costituzione, ma risulta in qualche modo condizionata dal ragionamento e dalle preoccupazioni sopra illustrati, in corrispondenza di queste disposizioni il legislatore ha creato lo strumento dell’interpello “disapplicativo”, finalizzato a conoscere l’avviso dell’amministrazione in ordine alla situazione di fatto del contribuente e tendenzialmente diretto a verificare che, nella specifica fattispecie, il timore del legislatore che giustifica la sterilizzazione del componente secondo l’id quod plerumque accidit non ha motivo di esistere.

Questo sembra, in altre parole, il senso della “disapplicazione”, da intendersi – stante l’elevata atecnicità dell’espressione – come possibilità di accedere a un regime diverso da quello legale, previa “verifica” della insussistenza delle condizioni che hanno portato il legislatore a prevedere – stando all’esempio finora utilizzato – l’indeducibilità del componente negativo.

 I limiti alla natura provvedimentale della risposta all’interpello

Il termine “verifica” appena utilizzato merita tuttavia un’ulteriore riflessione, in quanto potenzialmente suscettibile di condurre l’analisi a conclusioni tutt’altro che allineate allo spirito del decreto delegato e alle riflessioni a questo sottese.

Se, infatti, le riflessioni esposte nel precedente paragrafo sono alquanto condivise come dato di partenza, sono i successivi sviluppi che possono assumere una piega diversa.

È, infatti, evidente che la valorizzazione dell’attività dell’amministrazione, in sede di istruttoria dell’interpello, quale “verifica” della sussistenza delle condizioni che legittimano la deroga al regime legale porterebbe comodamente a concludere per la natura provvedimentale della risposta.

Riecheggiando la suggestiva tesi delle “verificazioni necessarie” mutuata dal diritto amministrativo, in altre parole, potrebbe risultare agevole concludere per l’assimilazione della risposta all’interpello a una autorizzazione, un “nulla osta” dell’amministrazione alla non applicazione del regime legale, previo accertamento della sussistenza di situazioni che rendono ragionevole la non applicazione del regime (limitativo) previsto dalla legge.

 La costruzione, così come illustrata, è certamente suggestiva, ma appare, al momento, slegata dalla realtà nella quale l’istituto si inserisce e opera.

Se, infatti, il legislatore avesse voluto creare uno strumento finalizzato a consentire una “previa necessaria verificazione” della situazione del contribuente, finalizzata alla individuazione del regime applicabile al caso di specie, non avrebbe certamente demandato questa delicata e importante funzione a una risposta all’interpello, ma avrebbe creato una sorta di “accertamento anticipato parziale” assistito, da un lato, dalla pienezza dei poteri istruttori necessari al corretto inquadramento della situazione da verificare e garantito, dall’altro, dalla possibilità di una impugnazione immediata, perfettamente coordinata (anche sotto il profilo processuale) con eventuali successivi atti di accertamento indirizzati al medesimo contribuente.

Così, tuttavia, non è; il riconoscimento della natura provvedimentale della risposta all’interpello (locuzione con cui intendiamo sintetizzare tutte le teorie che convergono verso l’idea che la risposta all’interpello sia quella sorta di nulla osta cui sopra ci siamo riferiti), infatti, crea delicati problemi tanto in ordine alle regole istruttorie, quanto in merito ai problemi di coordinamento processuale cui appare opportuno fare un breve cenno.

 L’istruttoria “limitata” e i problemi di coordinamento processuale

Il primo elemento da valorizzare, anche ai fini del coordinamento con la disciplina processuale, è quello che concerne la totale inibizione all’esercizio di poteri istruttori veri e propri in sede di trattazione dell’istanza di interpello. In questa sede, infatti, l’amministrazione – ferma restando la facoltà di richiedere una integrazione documentale a supporto della richiesta – si limita a una verifica “solo” cartolare della documentazione. Ogni giudizio viene, pertanto, espresso assumendo acriticamente tanto la veridicità della documentazione esaminata quanto la completezza della stessa; ciò risulta del tutto incompatibile con la possibilità di attribuire alla risposta una vera e propria valenza provvedimentale, la quale presupporrebbe, invece, la possibilità di esprimere un giudizio fondato sulla possibilità di un riscontro autonomo della situazione di fatto da verificare.

 Senza dilungarci eccessivamente sul tema, da questa premessa conseguono, come corollari, i non irrilevanti problemi di coordinamento processuale ai quali prima ci siamo sopra riferiti. Partendo da quanto sopra rappresentato – ossia che a valle dell’interpello non esiste un accertamento vero e proprio ma un mero riscontro “cartolare” dei fatti – c’è quindi da chiedersi – laddove si voglia riconoscere natura provvedimentale alla risposta all’interpello, con la conseguenza della sua autonoma e immediata impugnabilità – come si coordina l’impugnazione del parere con l’eventuale successivo accertamento dell’amministrazione che, in ordine alla medesima situazione, proprio in considerazione della carenza di poteri accertativi in sede istruttoria, conserva il potere/dovere di controllare se quando rappresentato dal contribuente sia veritiero e completo.

 Il vero dubbio di fondo è che il sistema della impugnazione immediata (ovvio corollario della valenza provvedimentale della risposta) rischia di tradursi in un elemento di forte diseconomia del sistema. Se è solo a seguito dell’esercizio degli ordinari poteri istruttori che l’amministrazione può esprimere un giudizio definitivo sulla spettanza della disapplicazione, risulta evidente che, ove la fattispecie “accertata” fosse diversa da quella “prospettata” nell’istanza, oggetto della risposta, il contenzioso azionato in ordine a quest’ultima sarebbe assolutamente inutile perché relativo a un tipico “caso di scuola”.

 Ciò premesso in generale, non possono essere trascurate nemmeno le più spicciole problematiche di tipo procedurale scaturenti:

Se si parte da quando detto sopra, ossia che la procedura di lavorazione degli interpelli disapplicativi si fonda (compatibilmente, secondo le nostre conclusioni, con la natura di atto non di accertamento delle risposte fornite) sulla assenza totale di poteri istruttori, è quanto mai opportuno richiamare l’attenzione sui problemi, sia di tipo sistematico sia di tipo operativo, di un contenzioso avente a oggetto una fattispecie che l’amministrazione non ha potuto valutare nella sua interezza e concretezza.

Va, infatti, evidenziato che la tendenza alla trasformazione del processo tributario da giudizio sull’atto in un giudizio sul rapporto, emersa e potenziatasi negli anni, è tale da non poter scongiurare il rischio che il giudice tributario finisca, al di là del percorso motivazionale della risposta impugnata che dovrebbe delimitare la materia del contendere e l’oggetto del giudizio, con lo statuire sulla spettanza della disapplicazione rispetto a una fattispecie sostanzialmente diversa da quella prospettata nell’istanza e mai compiutamente vagliata dall’amministrazione finanziaria. In altri termini, nel corso del giudizio, l’amministrazione – nell’impostare la propria difesa – sarebbe chiamata a compiere attività e svolgere valutazioni in parte nuove e diverse da quelle poste a fondamento della risposta originariamente resa e oggetto del giudizio.

 

Pur volendo soprassedere su questi rischi – tutt’altro che secondari nella logica della economicità dell’azione amministrativa – non meno preoccupanti sono le conseguenze che scaturiscono a danno del contribuente nel caso in cui – pendente il giudizio sull’interpello – l’amministrazione (nell’esercizio degli ordinari poteri di controllo) proceda a elevare le proprie contestazioni nei confronti del medesimo contribuente istante, aventi a oggetto (solamente o anche) situazioni già oggetto di un interpello obbligatorio, per le quali il contribuente si è autodeterminato, pur in assenza di una risposta favorevole da parte dell’amministrazione.

È evidente a questo punto che, se al contribuente non può essere ragionevolmente negato il diritto alla impugnazione immediata dell’atto di accertamento quale atto lesivo per eccellenza, si genera una diseconomica duplicazione di giudizi in tutto o in parte relativi – almeno in astratto – alla medesima posizione giuridica; da qui, la necessità di individuare soluzioni “compensatorie” (tra cui l’eventuale sospensione del secondo giudizio sull’atto impositivo in attesa della definizione del giudizio avente a oggetto la risposta all’interpello) che, tuttavia, non appaiono per nulla idonee a soddisfare le esigenze di tutela del contribuente.

Al riguardo, basti pensare che la soluzione della sospensione del giudizio sull’atto cui abbiamo sopra fatto cenno (sempre che risulti percorribile alla luce delle norme che regolano i casi di sospensione del processo tributario) impedirebbe al contribuente di attivare la tutela costituita dalla richiesta di sospensione del provvedimento impugnato a fronte della pendenza di un giudizio (quello relativo alla risposta all’interpello), nel quale una tutela cautelare non è configurabile in quanto trattasi di atto non esecutivo.

Queste brevi riflessioni hanno portato quindi il legislatore a confermare la natura essenzialmente non provvedimentale della risposta agli interpelli – del resto difficilmente configurabile nel quadro generale di riferimento – e ad avviare, in linea con i criteri della delega, una riflessione sulla possibile riduzione dell’ambito applicativo della categoria di riferimento.

 L’attuazione della delega: la tendenziale eliminazione della forme di interpello obbligatorio

Come accennato nel paragrafo iniziale, la tendenziale eliminazione della forme di interpello obbligatorio indicata dalla legge delega ha richiesto da parte del legislatore delegato una accurata riflessione, in termini di costi/benefici, in merito alla utilità della presentazione obbligatoria dell’istanza rispetto all’aggravio di adempimenti spesso lamentato dai contribuenti.

Giova ricordare che le principali forme di interpello obbligatorio previste prima dell’approvazione dello schema di decreto delegato erano le seguenti:

Si tratta evidentemente di ipotesi caratterizzate – proprio come dimostra il riferimento alle norme sostanziali – dall’esigenza di un pregnante monitoraggio che ha giustificato la previsione, a tal fine, dell’obbligo di presentazione di un’istanza di interpello.

 Come accennato in premessa, la previsione di tali forme di interpello – alquanto disallineate rispetto al paradigma generale dell’interpello quale strumento di dialogo trasparente con l’amministrazione – ha suscitato non poche perplessità da parte dei contribuenti, determinate – oltre che dagli equivoci che la obbligatorietà determina in ordine alla lesività della risposta e alla sua immediata impugnabilità – anche dal “peso” dell’adempimento nella dinamica complessiva del rapporto tributario.

Non può sottacersi, al riguardo, che alcune delle esigenze di monitoraggio poste alla base delle norme sostanziali di riferimento possono trovare adeguata soddisfazione attraverso diversi strumenti che appaiano, da un lato, meno gravosi per i contribuenti e, dall’altro, non meno efficaci rispetto all’obiettivo finale della disposizione.

 Per questo motivo, il criterio generale della legge delega si è tradotto nella eliminazione della maggior parte delle forme di interpello sopra menzionate dal novero di quelle obbligatorie (ricondotti tendenzialmente alla nuova categoria dell’interpello probatorio di cui all’articolo 11, comma 1, lettera b), dello Statuto dei diritti del contribuente) e dalla permanenza in questa categoria dei “soli” interpelli sopra individuati al primo punto (cfr articolo 11, comma 2, dello Statuto).

Sempre per tutelare le esigenze di monitoraggio su queste situazioni, lo schema di decreto ha introdotto, in corrispondenza delle fattispecie prima oggetto di interpello obbligatorio, un obbligo di segnalazione nella dichiarazione dei redditi, attraverso la quale il contribuente – che abbia autonomamente provveduto ad applicare un regime diverso da quello legale senza presentare l’istanza, in quanto non più obbligatoria – si rende manifesto di fronte all’amministrazione.


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